Cosa rimane oggi, dopo quarant’anni, di quel genere sonoro e metafisico nato in Francia dal genio di Christian Vander, condensato nei capolavori dei Magma e conosciuto nel mondo col nome di Zeuhl? Sorpresa: Uno dei maggiori album zeuhl degli ultimi vent’anni non è francese. Sorpresa numero due: è italiano. Si chiama “Rituale Alieno”, ed è il primo dei tre album meditati dagli Universal Totem Orchestra, prodotti dalla genovese Black Widow. Se fai tre album in 17 anni, vuol dire o che hai poche cose da dire, o che tutto quello che hai da dire sei capace di condensarlo in poche cose, disinteressandoti della prassi che spinge la maggior parte delle produzioni alla frenesia biennale delle nuove uscite. Il consiglio è quello di ascoltarli e di farvi un’idea. “Rituale Alieno” è un viaggio musicale, simbolico, poetico e linguistico in una galassia di mondi sonori. Una piccola opera escatologica di fine millennio sulle esperienze sonore vicine e meno vicine della musica occidentale degli ultimi secoli. Il layout oscuro – un manufatto ferreo vagamente raffigurante una figura umanoide – della copertina lascia presagire atmosfere poco lucenti, eppure l’iniziale “Pane Astrale” con i suoi evocativi tocchi di piano seguiti da note di soprano spiazza dolcemente, riportando ad un tempo in cui l’avanguardia e la musica progressiva dialogavano in maniera quasi naturale, trovando poetici luoghi d’incontro in alcuni indimenticabili espressioni (Opus Avantra, Pierrot Lunaire, il Battiato degli inizi). Ma è troppo presto per trarre conclusioni. “Saturno” è una suite di oltre venti minuti incastonata in un rigido 6/4 (ma la battuta è in terzine) sorretta da un basso serratissimo dove si consuma una lotta maestosa tra il soprano e un nugolo di arcieri gregoriani, che come danza ora tortuosa ora solenne si divincola tra le linee del basso e del sax. In mezzo, due incredibili assoli di chitarra di Marco Mauro, che racchiudono quanto di meglio il prog italiano contemporaneo sa offrire, alla faccia dei nostalgici. Bolle acquose di synth aprono “Il Viaggio di Elric” per scoppiare in un serrato tappeto di basso su cui i delay chitarristici iniziano a costruire profondità, per bloccarsi dinanzi ad un vuoto percussivo e atono, tagliato da echi di soprano, fino alla nuova ripartenza su cui si attorciglia un nuovo vertiginoso assolo di Mauro. A ridosso del quinto minuto una di quelle deviazioni concettuali che non ti aspetti: una struttura di cembalo e violoncello su cui si inerpicano le liriche ermetiche e oscure del coro, subito velocizzata con – ebbene sì – l’accenno di un piano jazz. Ancora più assurdo è il cambio dal minuto undici, avvolto improvvisamente in una nube synth-rock ai limiti dell’industrial, mentre la linea vocale, ancora la stessa, pare divenire struttura quasi metacontrappuntistica, dove a variare sono non le melodie ma i generi che via via le si oppongono (full review at: https://www.facebook.com/groups/32963...)